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Teletruria forever

Gianfranco Duranti è il direttore dell’emittente dal 1974, dal primo giorno di trasmissioni. Non ha avuto predecessori e qualcuno comincia a sospettare che non avrà nemmeno successori! In realtà il suo sogno è semplice: “Vorrei riposarmi e fare il nonno, ma mio figlio non ci sente…”. Nel 1988 diventò presidente dell’Arezzo, di cui è grande tifoso. Butali e Mancini, Angelillo e Bolchi, Lucherini e Fanfani: ecco cosa ci ha raccontato in un’intervista che spazia tra calcio, giornalismo e politica



Gianfranco Duranti, direttore di Teletruria dal 1974Gianfranco Duranti non ha predecessori e qualcuno comincia a sospettare che non avrà nemmeno successori. E’ il direttore di Teletruria da sempre, dal giorno in cui si accese la lucina rossa della telecamera negli studi di Corso Italia. Correva l’anno 1974, mese di dicembre. Duranti è tutt’uno con la televisione degli aretini, una delle emittenti private più vecchie d’Italia e tra le più longeve in assoluto. Quando si è seduto per la prima volta sulla poltrona del capo, tutta la tivù che non aveva il marchio Rai era fuorilegge. C’era il monopolio ma nel mondo dell’informazione si stava diffondendo la voglia di libertà, di avventurarsi per un sentiero che non si sapeva dove avrebbe portato. 34 anni dopo, il monopolio Rai non esiste più e le televisioni locali sono diventate centinaia, sparse ovunque. Nessuna, però, ha lo stesso direttore del primo giorno. E’ per questo che pensare a qualcuno che prenda il posto di Gianfranco Duranti è praticamente impossibile. Lui dice di no, che non è un uomo di potere ma soltanto un giornalista innamorato di Arezzo. In realtà il suo ufficio è un punto d’osservazione privilegiato: sulla politica, sull’economia, sullo sport. Sulla città intera. Tutto quello che conta, e anche quello che non conta, passa dalla sua scrivania.

Gianfranco Duranti è sposato con la signora Elena e ha un figlio, Andrea, di 37 anni. E’ anche console onorario di Germania, accanito fumatore, appassionato di calcio. Tifa Inter ma la vede quasi solo sul televisore di casa, tifa amaranto e allo stadio non manca mai. D’inverno e d’estate, lui c’è. Nelle occasioni che contano, sale in macchina e va pure in trasferta. Pochi ricordano che nell’88 diventò addirittura presidente dell’Arezzo, con il compito di mettere mano ai conti in rosso. “La gente non rammenta l’episodio? Non mi mortifica per niente” dice lui abbozzando un mezzo sorriso.

Butali, editore di Teletruria, aveva rilevato l’Arezzo calcio dalla gestione Nofri, investendo fior di quattrini e costruendo una squadra per puntare alla serie A. Dentro c’era gente del calibro di Tovalieri, Nappi, Silenzi, De Stefanis, Ruotolo, Ermini, affidata alle sapienti mani di Bruno Bolchi. Doveva essere un’annata magica, fu un disastro epocale. Retrocessione in C1, polemiche, veleni e denari gettati alle ortiche. Per ripianare i bilanci, Butali si affidò al manager che meglio conosceva: Gianfranco Duranti. “I consiglieri d’amministrazione erano una decina: oltre a Butali e al sottoscritto c’erano i fratelli Fabbroni, Caldelli, Tristi, Farsetti, Seri, Cipriani, Cerofolini. Rimasi in carica come presidente fino alla primavera dell’89, poi mi dimisi dall’incarico. Butali respinse le mie dimissioni e io le presentai di nuovo”.

Perché?

“Avevo fatto il mio lavoro, alleggerendo la situazione debitoria, e non reggevo più. Fu una fatica immane, bisognava stare all’erta 24 ore su 24. Se ci penso, ho gli incubi anche adesso”.

Da presidente ci sono onori e oneri.

“Infatti quando si prospettò l’ipotesi della mia investitura, non ne volevo sapere. Mi chiamavano il presidente con riserva. Per un mese mi macerai nel dubbio se fosse meglio accettare o rifiutare. Alla fine dissi sì”.

Per amore dell’Arezzo?

“Per quello, per rispetto verso Butali e il consiglio d’amministrazione. Per incoscienza”.

Certo che il Cda dell’epoca aveva una forza economica spaventosa.

“E’ vero. Solo che nel calcio la democrazia non funziona, serve il dittatore. Per mandare avanti una società ci vuole uno che comanda e gli altri che si adeguano. Butali era troppo buono, cercava di coinvolgere tutti nelle scelte, nelle decisioni e alla fine ci rimisero tempo, energie e soldi”.

Di quel periodo da presidente, le sono rimasti solo gli incubi nella memoria?

“Sapevo che non sarebbero state rose e fiori, altrimenti il presidente non l’avrebbero fatto fare a me. Però fu anche una soddisfazione personale, non lo nego”.

La retrocessione in C del 1988, secondo molti è la grande occasione persa del calcio aretino. Concorda?

“Sì. Devo anche fare autocritica in relazione a quel campionato sfortunato. Butali non voleva esonerare Bolchi, la squadra arrancava ma era comunque sopra la zona retrocessione. Io invece, insieme ad altri, spinsi per riprendere Angelillo, che non vinse nemmeno una partita e ci portò in C1”.

Altri ricordi?

“Mi insediai da presidente il giovedì, l’allenatore era Rampanti. La domenica vincemmo a Mantova con un gol di Calonaci. Fu un esordio fortunato il mio”.

Che giudizio dà di quegli anni ’80?

“Della gestione Butali do un giudizio positivo. Acquisimmo la società dal presidente Nofri, il quale era in procinto di portare le chiavi al sindaco. Le casse erano vuote e noi ci impegnammo per il risanamento. E’ chiaro che la retrocessione ci tagliò le gambe, ma nel complesso facemmo ottime cose, avvicinammo l’Arezzo alla provincia come mai era accaduto in passato. Cercammo di spezzare quella diffidenza con cui ci guardavano i tifosi di fuori città e devo dire che ci riuscimmo”.

Con Benito Butali, editore di Teletruria ed ex presidente dell'ArezzoQuant’è diverso il calcio di oggi da quello di allora?

“Mica tanto. Il calcio è business adesso come lo era vent’anni fa. E anche il pubblico di Arezzo è sempre uguale. All’epoca ce n’era di più allo stadio, ma è vero anche che le partite in diretta non le trasmettevano”.

L’Arezzo non è mai andato in A perché da noi mancano imprenditori disposti a investire nello sport. E’ così?

“Fino a un certo punto. Non dimentichiamo Golia, non dimentichiamo Terziani, presidenti che hanno speso lacrime e sangue. E soldi. Poi se mi si dice che Butali e il suo gruppo furono un’eccezione, allora posso concordare, anzi dico che fu quasi un miracolo”.

E Piero Mancini, in tutta questa analisi, dove lo mettiamo?

“Mancini ha fatto cose più che egregie. Improvvisando, vivendo alla giornata, ma le ha fatte. Ed è lì da 8 anni. Garantisco che sono lunghi. Quando prese l’Arezzo, mi chiese di far parte del Cda”.

Ah sì? E lei?

“Dissi cortesemente di no, spiegando che col calcio avevo già dato”.

Perché Mancini, secondo lei, non è mai riuscito a programmare in modo serio e costante?

“Lui è un grande imprenditore, probabilmente è la diffidenza che lo spinge a cambiare sempre e comunque. Il mondo del calcio non è un ambiente facile, è pieno di squali disposti a tutto. Quando Mancini dice che se ne andrebbe anche domani, io lo capisco”.

Che rapporti ha con lui?

“Buoni. Gli va riconosciuto il grande merito di aver tenuto la società al riparo dagli scandali. Credo che in C ci siano pochi club come l’Arezzo”.

Quant’è che tifa amaranto?

“Da quando giocavano Peruggia e Cati. Ho sempre avuto due passioni, l’Inter e l’Arezzo. Ho sempre sofferto il giusto”.

Il giocatore che ha amato di più?

“Francesco Graziani. Era un ragazzino, alloggiava da Cecco e io andavo spesso a trovarlo. Scrivevo sul Guerin Sportivo, mi ero innamorato di quell’attaccante che segnava e giocava col cuore”.

Allenatore?

“Ballacci, lo apprezzavo per le doti tecniche e anche per quelle umane. Poi dico Giorgini, col quale sono rimasto in amicizia”.

Angelillo no?

“Angelillo l’ho apprezzato di più come calciatore dell’Inter…”.

La gioia più intensa quando l’ha provata?

“Una volta che vincemmo a Perugia. C’era Montaini presidente. Qualche anno prima al Santa Giuliana mi avevano sputato addosso, ma non potei reagire. Avevo ricevuto una querela a causa di un articolo, ero nell’occhio del ciclone, dovetti stare calmo. Festeggiai alcuni anni più tardi”.

E la delusione cocente?

“La radiazione del ’93. Fu un dramma sportivo, settant’anni di storia buttati via. Non ero più in società, ma feci di tutto per evitare una fine del genere: riunioni in Comune, telefonate in Lega. Non ci fu niente da fare. Lo considero uno sfregio alla nostra città, figlio di un accanimento senza spiegazioni”.

Tutto per pochi soldi.

“La mattina dell’udienza in tribunale provai un ultimo, disperato tentativo. Chiamai Butali al telefono e lo convinsi a giocare la carta della disperazione. Mi autorizzò a staccare un assegno da 200 milioni, col quale mi presentai al curatore fallimentare Rossi. Era presente anche una funzionaria della Lega di C. “E’ tardi” mi disse lei “a Roma hanno già fatto la conferenza stampa in Federcalcio”. E l’Arezzo fu radiato”.

Un'intervista degli anni '80 con Giorgio Almirante, segretario del MsiDell’Arezzo di oggi, invece, che mi dice?

“Che la squadra ha buttato via un sacco di punti. Siamo stati sfortunati, è vero, ma anche colpevoli”.

Che qualità deve avere il direttore di Teletruria?

“Deve essere un mediatore, dialogare con le istituzioni e capire le esigenze della gente”.

Teletruria è accusata di essere una televisione ecumenica, equidistante dalla destra, dalla sinistra e poco corrosiva nei confronti del potere. E’ veramente così?

“Ti rispondo ricordando un episodio del ’99. Lucherini e Nepi erano al ballottaggio per l’elezione a sindaco e Teletruria organizzò il faccia a faccia in piazza San Francesco, in diretta televisiva. Il giorno dopo mi arrivarono decine di telefonate per accusarmi di essere un filofascista e decine di altre telefonate con cui mi rinfacciavano di essere filocomunista. Fu il migliore attestato di imparzialità. E comunque Teletruria, quando c’è da stare dalla parte dei cittadini, si schiera eccome”.

Lei ricopre la carica di direttore dal 1974. La televisione quanto è cambiata?

“Dal punto di vista tecnologico, è cambiata radicalmente. E io il cambiamento l’ho subìto, visto che uso il pc come una macchina da scrivere, né più né meno”.

Niente posta elettronica?

“Per carità”.

L’informazione oggi è migliorata?

“La gente viene informata di più, che è comunque un miglioramento, e viene informata in tempo reale. Io però, se posso concedermi un rimpianto relativo ai miei tempi, noto che oggi molti giornalisti sono quasi degli impiegati. Se ne stanno in redazione e scrivono al computer. Bisognerebbe fare un giornalismo diverso, sulla strada. Uno dei miei ricordi più belli è relativo al periodo in cui lavoravo all’Associated Press, a Roma. Prendevo il fotografo e andavo in via Veneto, in cerca di scoop. La gente voleva leggere della dolce vita, voleva notizie fresche”.

Lei è su questa poltrona da 34 anni. Si sente un uomo di potere?

“No, mi sento un giornalista al servizio della città”.

C’è un personaggio politico al quale è rimasto legato?

“Al sindaco Aldo Ducci, un uomo che ha gettato le basi per lo sviluppo economico e sociale di Arezzo, ma anche per quello urbanistico. Un grande politico, di spessore”.

Che pensa di Lucherini?

“Che resterà per sempre il simbolo di una svolta epocale per la città, consumata soprattutto durante il primo mandato, quando traspariva una straordinaria voglia di fare”.

E di Fanfani?

“E’ un uomo di grandi capacità, dovrà metterle al servizio dei cittadini. Non è facile, visto anche il momento economico”.

Quanti rimpianti ha nella sua vita?

“Avrei potuto lavorare in Rai, in testate nazionali di un certo livello, ma ho sempre rifiutato. Per amore di Arezzo e della mia famiglia, soprattutto. Non ho voluto allontanarmi”.

Per quanto tempo ancora resterà direttore di Teletruria?

“Spero poco. Il mio sogno è riposarmi e fare il nonno, ma mio figlio Andrea da quest’orecchio non ci sente…”.

 

scritto da: Andrea Avato, 25/05/2008