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SERIE D GIRONE E - 1a giornata

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Trestina4 set15Pianese
Terranuova4 set15Montespaccato
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saluti da Parigi da parte di Carlo
NEWS

La crisi dell'Arezzo finisce in caciara. Competenza e calcio sostenibile le uniche salvezze

Il presidente Manzo e Muzzi che postano polemicamente su facebook, a poche ore dall'assemblea dei soci, sono il segnale di una situazione in continuo peggioramento. La proprietà si sente attaccata senza motivo, così come era successo a La Cava e Ferretti, per aver investito tanti soldi, cui però non sono seguiti i risultati. Il fatto è che senza persone all'altezza, il calcio non si fa. Quattro anni addietro Pavanel arringava tutti dalla sala stampa. La storia dimostra che siamo tornati al punto di partenza



Buttarla in caciara non è elegante e non fa bene a nessuno, ma sta andando a finire proprio così. Aveva cominciato il vicepresidente Francesco Manzo a battibeccare con i tifosi su facebook, qualche giorno fa. Ieri l'ha seguito il presidente Guglielmo Manzo, spalleggiato dall'ineffabile Roberto Muzzi, evidentemente più a suo agio con le dita sullo smartphone che quando c'era da mettere la faccia su certe discutibili scelte tecniche. 

Una deriva di questo tipo, con il massimo dirigente di una società con cent'anni di storia che scende nell'arena social per annunciare l'intenzione di vendere l'Arezzo, è il segno di questi tempi grami e anche di una incompatibilità eclatante con la carica. Se un imprenditore con grande disponibilità economica, e anche un ex calciatore con centinaia di presenze in serie A, non trovano di meglio che sfogarsi online, a poche ore da un'assemblea dei soci che era la sede ideale per spiegare, argomentare e chiarire, è sconfortante quasi quanto la gestione della squadra nelle ultime due stagioni.

Il punto è che la proprietà, e le reazioni dell'ultimo periodo lo testimoniano in modo lampante, è convinta di essere bersaglio di critiche ingiuste, di una contestazione immotivata, di una sfiducia inspiegabile. Siccome ha messo i soldi, tanti soldi, non accetta il malcontento della piazza, fomentato, udite udite, nientepopodimeno che da quegli smidollati di Orgoglio Amaranto

Questa che sembra una boutade è in realtà l'ultima croce su un rapporto con la città che non è mai decollato ma che poteva essere recuperato e ricucito in più circostanze, finanche dopo la famigerata conferenza stampa del ''chiudo lo stadio, questa è casa mia''. Il pubblico avrà mille difetti ma la verità è che nel calcio parte tutto dalla società. Se la società è forte, sono forti tutti. Se la società fa acqua, si naviga a vista e si va alla deriva.

Un meccanismo psicologico del genere, comunque, non è un inedito. Funziona così da quasi tutte le parti, ma ad Arezzo abbiamo avuto esempi eclatanti negli ultimi anni. Manzo oggi, La Cava ieri, Ferretti l'altro ieri si sono tutti lamentati (anche su internet) perché si sentivano incompresi nonostante mettessero mano al portafogli. E' un cortocircuito che va di pari passo con l'altro luogo comune: non rompiamo le scatole al presidente di turno, perché se poi se ne va il calcio da noi sparisce.

 

Come se i presidenti fossero venuti qua su esplicita richiesta della gente, andata in processione a pregare quelli che erano emeriti sconosciuti di occuparsi di pallone ad Arezzo. Sia chiaro, il rispetto per chi amministra e finanzia il club è sacrosanto e doveroso, come è umanamente comprensibile sentirsi feriti, e reagire di conseguenza, se ti fanno striscioni al vetriolo contro. Ma l'eccesso di deferenza porta solo brutte cose. Dovremmo averlo capito in tutti questi anni di martirio, invece sembra di no.

Detto questo, andrà compreso se il gruppo Mag deciderà di continuare ancora nel suo progetto, magari riducendo costi e ambizioni come trapelava stanotte, oppure se i post su facebook del presidente sono davvero il prologo all'addio. Nel primo caso, l'unica via d'uscita si chiama ripescaggio, da implorare e pagare con moneta sonante. Anche Ferretti dovette passare dalle forche caudine del versamento a fondo perduto, ma dopo si garantì per un po' di tempo una certa serenità. Nel secondo caso, bisognerà verificare se l'aumento di capitale verrà sottoscritto comunque nel giro di due mesi e se ha senso mettere all'angolo OA per il solo fine, a quel punto, di scrollarsi di dosso la pulce fastidiosa dell'1% che però ha diritto di prelazione sulla compravendita delle quote.

Più dell'aretinità, ciò che servirebbe adesso e per i prossimi decenni è la competenza, unita alla progettualità. Un incompetente di Arezzo produce gli stessi danni di uno di Roma o di Torino o di Lecce. Al contrario, persone competenti di qui sarebbero un valore aggiunto per il club, per l'ambiente, per preparare il centenario che è dietro l'angolo.

Il gruppo Mag paga questo: allenatori e bravi calciatori diventati brocchi clamorosi, un consigliere ombra che consigliava ma, ufficialmente, non decideva, un tourbillon di direttori sportivi rimasti tutti all'ombra di Muzzi e nessuna, vera professionalità manageriale che si occupasse di calcio a tutto tondo, che coordinasse area tecnica, amministrativa, marketing, di relazioni (su quest'ultimo aspetto bisognerebbe scriverci un articolo a parte).

Ora la richiesta unanime è un calcio sostenibile, senza bilanci chiusi con perdite milionarie (come successo a Manzo ma anche a La Cava e Ferretti). Richiesta legittima cui tutti però dovremo adeguarci, senza farci più imbambolare dall'ambizione: non come tre anni fa, poco dopo la battaglia totale, quando i soci di minoranza Anselmi e OA furono defenestrati dal consiglio d'amministrazione e spernacchiati il giusto, perché tutti eravamo drogati dalla prospettiva di tornare in B.

Facciamo calcio in modo diverso, ok, anche salvando quello che di buono ha fatto questa proprietà: il settore giovanile, finalmente affidato a un ragazzo serio, aretino, qualificato, competente e già esperto; le strutture, in concessione quinquennale dal Comune con una fideiussione da 800mila euro a garanzia dei lavori da fare. La prima squadra resta il fulcro del progetto, ma il contorno è decisivo per garantirsi stabilità.

 

 

Competenza, investimenti seri nel vivaio, investimenti lungimiranti negli impianti sono cardini imprescindibili che le ultime proprietà, purtroppo, hanno trascurato, impiccandosi esclusivamente ai risultati del campo. E' questo il motivo per cui ogni tre per due da noi si cambia presidente e si ricomincia sempre dall'inizio. 

Un dirigente della società attuale qualche settimana addietro disse caustico che stava cominciando a capire perché l'Arezzo non ha mai fatto la serie A. Perché ci sono sempre state società ricche e incompetenti o competenti ma senza grandi mezzi economici. E quasi mai baciate dalla sorte. La risposta è questa, non ve ne sono altre. 

I corsi e ricorsi storici a volte sono preziosi e bisogna trarne insegnamento. Domenica ad Arezzo arriva il Rieti, dove il dirigente di riferimento è un tale che da noi aveva l'ultima parola su direttori e allenatori, scelti in base alla disponibilità a confermare e far giocare il figlio. Una roba terrificante che abbiamo dovuto sopportare per anni. Ad Arezzo. Non in un paesucolo senza tradizione. Ad Arezzo.

Il 17 febbraio 2018 fa, invece, Massimo Pavanel ci arringava tutti dalla sala stampa, a poche ore dalla trasferta di Pontedera. C'era una crisi aperta, non si sapeva se la squadra avrebbe terminato il campionato o meno. Giurammo che, in caso di salvezza, avremmo ripensato il nostro rapporto con il calcio, che OA era una risorsa da salvaguardare (altrimenti a quest'ora in Eccellenza c'eravamo già stati), che non dovevamo badare solo alle vittorie ma a costruirci un domani più solido. Invece pochi mesi dopo abiurammo tutto. E oggi rieccoci qui

 

scritto da: Andrea Avato, 17/02/2022





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